domenica 20 settembre 2015

Un anno nella tomba assieme al torturatore siriano

La vicenda di Maher è differente da quella di Abu Omar perché siamo in presenza di un cittadino siriano naturalizzato canadese quindi con doppio passaporto e nel suo caso, almeno per quanto accertato in seguito ad una inchiesta, le autorità canadesi non collaborarono fattivamente con quelle americane alla sua rendition che fu frutto di una errata segnalazione dell’antiterrorismo canadese all’Fbi. Al momento inoltre non si è riusciti ad inchiodare alle loro responsabilità i funzionari americani che spedirono Arar in Siria alla mercè dell’unità anti-terrorismo guidata allora dal generale George Salloum unico contro il quale è stato costruito un quadro probatorio adeguato.
L’incriminazione formalizzata dalla stessa Royal Mounted Canadian Police in questi giorni è unica nel suo genere e tra le poche al mondo perché permette, in base alla norma della giurisdizione universale, di chiamare a rispondere un cittadino straniero di un crimine contro l’umanità (il reato di tortura) perpetrato contro un cittadino canadese in Siria quindi fuori dalla giurisdizione canadese.
Si tratta di un atto purtroppo meramente simbolico perché difficilmente Salloum, che adesso dovrebbe avere circa cinquant’anni, verrà mai rintracciato in seguito anche alla blue notice emessa dall’Interpol ammesso che sia vivo, ma è un segnale importante per ribadire che il Canada non ammette la tortura e anche nella speranza che un giorno i funzionari americani così come è accaduto per la rendition di Milano, vengano chiamati a risponderne.


I guai per Maher Arar iniziarono il 12 ottobre del 2001 quando fu notato dalla Royal Canadian Mounted Police mentre chiacchierava in un caffè di Ottawa con un conoscente anch’egli siriano, tale Abdullah al Malki. Questi era un ingegnere che per lavoro aveva spesso viaggiato nell’area Af-Pak e che da molti anni era sotto osservazione in quanto sospettato di frequentare circoli eversivi che aderivano all’ideologia di al Qaeda.
La polizia iniziò a fare ricerche su Arar. Non venne fuori niente di particolare ma al Malki veniva indicato come uno dei contatti a cui fare riferimento in un contratto di affitto che risaliva a qualche anno prima. Fu così che Arar fu inserito in una lista di potenziali informatori da tenere d’occhio e nel Febbraio del 2002 nel corso di un incontro di routine per scambio di informazioni i suoi dati furono passati ai colleghi dell’Fbi. Il problema è che non fu indicato come persona che aveva semplici contatti ma come uno che aveva legami con al Qaeda.
Il 26 settembre del 2002 di ritorno da un viaggio in Tunisia con la famiglia e con l’intento di prendere una coincidenza allo JFK di New York, Arar fu fermato da polizia e federali e tenuto in isolamento per essere interrogato. Così cominciò il suo calvario.
Gli fu chiesto di al Qaeda e delle sue relazioni con altri cittadini musulmani in Canada nonché delle sue opinioni sulla situazione medio-orientale.
Dopo diversi giorni Arar riuscì ad incontrare l'avvocato procuratogli dalla madre e un rappresentante del consolato canadese che lo rassicurò sul fatto che non sarebbe mai stato mandato in Siria come minacciato dai funzionari americani. La base legale perchè fosse espulso e non deportato in Canada come lui implorava, risiede nel fatto che Arar era considerato un pericolo serio alla sicurezza nazionale. Con molta probabilità l'ordine di trasferimento in Siria fu gestito ad alto livello a
Washington.

A quel punto l'unica prova che gli americani avevano della sua appartenenza ad al Qaeda era una confessione di Omar Khadr, altra vittima di rendition, estortagli in Afghanistan dall'agente Fuller dell'Fbi. Khadr dichiarò di aver visto Arar in un campo di addestramento di al Qaeda nei pressi di Kabul. Parecchi anni dopo nel corso di vari contro-interrogatori condotti dalla difesa di Khadr, Robert Fuller si contraddisse più volte e alla fine fu accertato che Khadr mentì affinchè smettessero di torturarlo. Secondo John Kiriakou all'epoca esponente di spicco dell'antiterrorismo americano, che pagò con la prigione per aver esposto il programma di torture della Cia, non c'era consenso all'interno dell'agenzia sul caso Arar. Molti erano consapevoli del fatto che le prove erano false. Alla fine prevalse però la volontà di sottoporlo a rendition. Con un escamotage non fu permesso all'avvocato di
Arar di assistere all'udienza davanti alla commissione immigrazione alla quale egli fece presente che in Siria per il solo fatto di essere sunnita lo avrebbero torturato. Non fu ascoltato. Gli fu fatto firmare un foglio in cui dichiarava la propria colpevolezza e fu spedito in Siria con uno stop in Giordania perchè le autorità siriane non misero a disposizione un volo diretto.



Arar fu portato immediatamente nella sezione 235 o Filasteen branch così chiamata a significare l'appoggio alla causa del popolo palestinese. Fu usata inizialmente a supporto delle operazioni contro gli israeliani. In seguito divenne un deposito per gli oppositori del regime. Divisa in sette piani a seconda della tipologia di crimine di cui si è accusati e una quarantina di celle larghe non più di due metri, vi vengono praticate tutte le torture di cui abbiamo letto nel rapporto Feinstein .
Violenza fisica, sessuale, elettroshock. Arar incontrò altri prigionieri canadesi tra i quali lo stesso al Malki e descrisse la sua cella come una tomba nella quale gli facevano compagnia solo gatti e topi. Oltre alle botte e all’introduzione di bottiglie nell’orifizio anale spesso veniva portato in stanze vicino a quelle in cui erano torturati altri prigionieri per aumentarne la sofferenza e il disagio. Non osò confessare le violenze ai funzionari dell’Ambasciata canadese che lo visitarono. Quando i siriani gli fecero capire che avrebbe potuto essere liberato, si decise a firmare una dichiarazione di colpevolezza in cui affermava di essere un membro di al Qaeda. Fu così che a distanza di un anno venne rimpatriato. Sottoposto ad inchiesta dalla magistratura canadese riuscì a provare la sua innocenza e ad ottenere un risarcimento di dieci milioni di dollari canadesi per l’errore commesso dalla polizia che lo aveva praticamente consegnato nelle mani del governo americano.
Quella stessa polizia che per dieci anni a partire dal 2005 ed assieme ad agenzie di altri Paesi ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo per raccogliere prove e formulare l’incriminazione emessa nei primi giorni di Settembre di quest’anno.
Se Salloum è ancora vivo e avesse in mente di fuggire tra i profughi, verrebbe catturato ed estradato in base agli accordi internazionali. Ma anche gli americani non possono dormire sonni tranquilli.

I torti, sia fatti che subiti, non vengono mai dimenticati e prima o poi si è chiamati a risponderne.

Nessun commento:

Posta un commento