giovedì 7 luglio 2016

I sonni agitati dello zar saudita

Prima Jeddah, poi Qatif e, infine, Medina. In una sola giornata, il terrorismo di matrice jihadista ha alzato sensibilmente il livello dello scontro nei confronti della monarchia saudita.

Le autorità locali hanno da subito parlato di “attentato mancato”, affrettandosi a dichiarare che il kamikaze era un lavoratore straniero residente nel regno (poi identificato come un pachistano). Ardemagni Ispi


La nozione che la serie di attacchi che ha sconvolto l’Arabia Saudita nei giorni scorsi debba costituire un campanello d’allarme o rappresenti una escalation della strategia di Daesh è, almeno sotto l’aspetto investigativo e nella prospettiva di un’analisi globale, altamente fuorviante.
Nel passato sono stati colpiti obiettivi sensibili di alto livello come il quartier generale dei servizi segreti e le postazioni militari al confine con lo Yemen e il Bahrain.
Semmai dovremmo chiederci se l’azione non sia sta coordinata dall’interno. Questo costituirebbe il vero punto di svolta della fase che la stagione terroristica medio-orientale sta vivendo nel golfo.
Sarebbe la conferma che la sicurezza saudita è a dir poco inadeguata.

Non c’è musulmano sano di mente, tantomeno consapevole delle proprie azioni e soprattutto saudita, disposto a compiere un attentato nella moschea del profeta. Il fatto che il gesto sia stato compiuto da un pachistano residente nel regno da diversi anni, è la conferma che anche nei Paesi arabi la componente religiosa ha valenza relativa nell’architettura terroristica moderna. Così come in Europa un elemento strutturale importante è costituito dalla rabbia delle seconde generazioni, nel golfo le radici dell’odio risiedono anche nei maltrattamenti che gli arabi (non tutti e non sempre) spesso riservano alla manovalanza straniera. Bisogna accertare se qualcuno ha strumentalizzato questo malessere o se l’attacco è stato il frutto di iniziativa personale.
Si può comunque dare credito alle valutazioni della prima ora che non vogliono essere un modo di scaricare le responsabilità o di giustificare l’evento. Non c’è nulla di atipico nel sottolineare che l’attentato sia stato perpetrato da un cittadino di fede musulmana ma straniero.

Bisogna piuttosto chiedersi se le autorità saudite stiano facendo abbastanza in fase di prevenzione per scongiurare attacchi. Sebbene sia praticamente impossibile mettere in sicurezza una moschea, visti i numerosi accessi anche al di fuori degli orari di preghiera, era prevedibile che ci sarebbero stati attentati almeno negli ultimi cinque giorni del Ramadan, durante l’Eid e nelle fasi cruciali dell’Hajji che verrà.
L’impressione generale è che sua altezza Mohammed bin Nayef, passato già alla storia per essere lo zar della sicurezza saudita, sia rimasto ai tempi in cui accettava di incontrare nel proprio ufficio, senza scorta né armi in mano, un presunto terrorista che si era cosparso le mutande di polvere esplosiva e che effettivamente si lasciò esplodere senza provocare gravi conseguenze solo per grazia di Dio. L’era di al Qaeda e di bin Laden. Grossi pericoli anch’essi, ma abbastanza gestibili almeno all’interno del regno.
E bisognerebbe sapere anche in che direzione si muovono in questo periodo, personaggi del calibro di sua altezza Bandar bin Sultan, che di solito lavorano molto dietro le quinte e in maniera atipica.

Oggi Daesh in versione franchising costituisce un pericolo insidioso difficile da inquadre ed arginare. Bisogna che i sauditi rivedano le loro best practices in materia di sicurezza, ma soprattutto che riconsiderino l’educazione scolastica e religiosa. E’ notizia di pochi giorni fa l’uccisione avvenuta per mano di due gemelli della madre che non voleva lasciarli partire per la Siria. I ragazzi sarebbero stati influenzati da una versione distorta degli insegnamenti di Sheikh bin Baaz.
Questo è il vero campanello di allarme.

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