domenica 12 giugno 2016

Il foreign fighter cenerentolo


Ha resistito poco più di un mese Mohamad Khweis tra le fila di Daesh. Il percorso del giovane americano di origine palestinese è quello che ormai conosciamo bene grazie alla casistica . La scorsa estate si è messo alla ricerca di notizie sul califfato. Si è reso visibile sui social in modo da attrarre l'attenzione degli specialisti dell’organizzazione. E a Dicembre, dopo aver venduto l’autovettura, si è messo in viaggio con destinazione Siria. Transitato in Inghilterra e Olanda, una volta arrivato in Turchia è riuscito a passare la frontiera grazie al contatto con la moglie di un membro di Daesh. E’ stato piazzato all’interno di un campo di addestramento e ha scelto il suo nome di battaglia. Abu Omar al Amriki. Quando ha iniziato un corso intensivo di Sharia si sono manifestati i primi evidenti disagi. Non ha avuto nemmeno il tempo di mettere mano ad un fucile ma ha capito subito che quella non era vita per lui e che le millantate meraviglie del califfato non erano poi da mille e una notte. Alla fine ha pianificato una fuga culminata nella resa ai peshmerga. I curdi gli sembravano ben disposti nei confronti degli americani. Così ha spiegato la sua scelta ai federali che lo hanno preso in consegna dopo l’interrogatorio dei curdi e l’esibizione in tivvù. Nel momento in cui si è reso conto di essere in un pasticcio grosso, Khweis ha cercato di sminuire le proprie responsabilità ma non ha mai negato di essere stato sempre perfettamente a conoscenza degli obiettivi perseguiti da Daesh e dei mezzi usati. E’ partito perché voleva essere parte di quel progetto. Lui che viene descritto da parenti e amici come un tipo tranquillo. Praticamente anonimo.

Dopo la cattura avvenuta nel Marzo di quest’anno e il ritorno in patria, la procura lo scorso Maggio ha emesso una ordinanza di incriminazione che ne certifica nero su bianco il percorso di foreign fighter ma anche la mancata partecipazione ad azioni di guerra o criminali.
Seamus Hughes, che collabora con Vidino alla George Washington University, ed altri esperti del settore, si sono chiesti se quella incriminazione fosse davvero necessaria visto che il giovane non ha le mani sporche di sangue. O se piuttosto tutti i discorsi sui programmi di deradicalizzazione e contrasto all’estremismo non siano una chimera.
Hughes notava anche, all’indomani di una sentenza molto dura nei confronti di un gruppo di somali che aveva in animo di partire per la Siria ma poi è stato bloccato anche grazie ad una serie di esche al solito un po’ spregiudicate messe in atto dall’Fbi, che il procuratore che ha chiesto il carcere a vita e non ha concesso alcuna attenuante nonostante gli incriminati si siano volontariamente sottoposti ad un programma di riabilitazione, è poi la stessa persona che chiede a gran voce l’implementazione di piani tesi al contrasto della violenza estremista. Tornerebbe utile sfruttare Khweis, dopo averlo rieducato, per il dialogo con i soggetti a rischio.

Un po’ quello che accade in Italia.
Da un lato ex-magistrati passati alla politica e procuratori che hanno fatto storia come Spataro, pongono l’accento sul fatto che non c’è bisogno di leggi speciali ma piuttosto di coinvolgimento delle comunità. Dall’altro il procuratore anti-terrorismo e i massimi rappresentanti delle forze dell’ordine invocano ed ottengono leggi che tendono a regolamentare anche le intenzioni dell’individuo. Cosa che alla lunga di certo non stimola il coinvolgimento e la collaborazione.
E’ veramente così difficile conciliare l’aspetto sociale con quello legale o mancano volontà e strategie ?

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