giovedì 24 dicembre 2015

Fuori di grazia

Betnie Medero.


Quando iniziai a studiarmi il caso Abu Omar, tra i tanti sparsi in mezzo a sentenze e resoconti giornalistici mi colpì proprio questo nome. Suonava palesemente falso.
Kitsch. Come solo gli americani sanno esserlo.
E me la immaginai così. Come la ragazza del saloon. Quella che flirta con tutti ma che alla fine se ne va a dormire da sola. Anche se a quanto pare la Betnie messicana se la spassava alla grande a Milano.




Abu Omar e dintorni.

Servi degli americani. Questo è stato il massimo del dissenso che l'italiano medio ha ritenuto di dover esprimere almeno su internet.
Non si è capito che l'umiliazione sta tutta nel testo della grazia. Poi che la libertà degli americani sia stata barattata con quella dei marò, quello è un fatto secondario. La chiamano ragion di stato.
La grazia è stata motivata con l'apprezzamento per il fatto che l'amministrazione Obama ha chiuso con le rendition.
Tecnicamente forse è così.
Ma per ogni nazione alleata degli americani in cui ancora i cittadini vengono presi e massacrati di botte prima di fargli firmare una confessione silenziosa, e dal Pakistan all'Arabia Saudita di esempi ve ne sono tanti, la Cia e Obama sono ancora materialmente e moralmente responsabili.
Noi siamo servi degli americani nella misura in cui ne prendiamo a modello le malefatte.
Oggi l'America va oltre. Non si accontenta di sapere che sulle torture è calato un nero sipario.
Chiede a gran voce che vengano assicurati i colpevoli alla giustizia.
Questa è la più grossa sconfitta che ci siamo autoinflitti con la grazia a Seldon Lady e Medero.
Abbiamo rinunciato a chiedere giustizia. La democrazia è stata calpestata.
Così come sono state calpestate tutte le vittime della vicenda Abu Omar e di quelle ad essa connesse.
Dal caso Telecom a via Nazionale. Vicende cancellate da tre grazie e un segreto di stato.

Doppio Mike.

In generale io difendo il principio.
Poi capita di imbattermi in casi che vedono come protagonisti dei personaggi secondo le cronache controversi . De Gennaro, Pisani, Ganzer.
E capita di difendere anche loro.
Di Mancini mi ha intrigato da subito questa sua presenza ubiquitaria in vicende che seguo da quando ero ragazza. Dal Pilastro a Reggio Calabria.
Come se le nostre vite corressero su binari paralleli ed eterni.
Vicende in cerca di risposte che non arriveranno mai.
E questa sua capacità intrinseca di scatenare guerre ovunque. Sui giornali, dentro ai servizi, tra i politici. Uno che fa parlare di se anche quando non si sente per anni deve essere per forza qualcosa di grande.
E Marco Mancini di sicuro lo è.
Permaloso, vendicativo, violento secondo i denigratori.
Ma anche profondamente religioso e attaccato alla famiglia. Uomo di grande cuore per chi gli è stato vicino negli anni più difficili. Guidato da un alto senso dello stato.
E che però deve stare agli ordini proprio di quello stato.
Quando reclamava giustizia per se stesso, Mancini certamente incarnava l'uomo delle istituzioni perché ci chiedeva di distinguere tra lui e gli altri. Di comprendere che lui non è come chi gli dava gli ordini. Io non ho mai rapito nessuno, disse.
E però dopo aver portato a casa l’assoluzione pure lui si è zittito.
A quel punto si è rassegnato ad incarnare l' Italia in cui ognuno bada ai propri interessi.
Che non è più quella delle istituzioni.
Nell’Italia che non riesce a maturare la consapevolezza che anche un terrorista ha diritto ad un giusto processo ma non ad essere torturato, è lecito anche che non si adotti nessun tipo di distinguo tra mandanti ed esecutori. Tra responsabili maggiori e minori.
Questo è quello che mi ha deluso del Mancini funzionario ed essere umano di cui ho tanta stima e che pensavo diverso dagli altri. Si è adattato a quell'italietta che lui e il suo Sismi ci hanno consegnato.
Una Italia piccola piccola stretta nella morsa del razzismo e del disprezzo.
Per questo motivo non ha diritto ad altri sconti oltre a quello che il segreto di stato gli ha garantito.
Il resto sta alla sua coscienza. Almeno una ne avrà.

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