Le dichiarazioni rilasciate da diplomatici cinesi, circa la possibile partecipazione a un intervento militare a Idlib, sono in linea con l’impegno profuso dal loro Paese nei più importanti teatri di guerra e aree di proliferazione dell’estremismo. Dai tavoli con i Talebani a Doha fino agli atolli maldiviani, la Cina lavora senza sosta per preservare i propri interessi politici e commerciali. Inoltre vigila affinché il dissenso e la radicalizzazione tra le pareti di casa rimangano su livelli controllabili e sia scongiurato il ritorno in massa degli Uighuri.
I continui giri di Shaykh Al Joulani nelle aree liberate del Nord, alla ricerca di alleanze militari ma anche di consenso popolare, e le recenti perdite subite dall'esercito di Assad per mano della costola siriana di Al Qaeda (Tanzim Hurras AdDeen), danno un'idea di quello che potrebbe essere lo scenario in caso di attacco finale ad Idlib.
Uno stato di guerriglia permanente.
E' difficile fare una stima precisa, soprattutto a seguito degli scambi effettuati per il completamento delle de-escalation zones, del numero esatto di combattenti presenti al Nord. Dovrebbero essere almeno sessantamila ma potenzialmente molti di più.
Questi non sono in grado di vincere una guerra. Però non si arrenderanno tanto facilmente.
Al Joulani sta affinando l'alleanza con i capitribù con i quali ha un ottimo rapporto. La concessione della gestione amministrativa di diverse aree di interesse dovrebbe permettergli di completare il lavoro di amalgama svolto finora dal governo di salvezza nazionale.
Il perfezionamento delle alleanze militari, unitamente alle continue defezioni degli irriducibili che scalpitano per tornare a combattere sotto il vessillo qaedista sbandierato da Uraidi e Julaybib e non vedono all'orizzonte una riconciliazione tra Al Zawahiri e i vertici di Hayat Tahrir, per il momento gli consente di rigettare con forza (come avrebbe fatto nel corso di un incontro al vertice nei giorni scorsi) la fusione con il Fronte di Liberazione Nazionale di marca turca. Potrà altresì liberarsi, senza ricorrere a metodi drastici che inasprirebbero il clima interno, di uomini scomodi che gli precludono il supporto popolare e poco fanno la differenza nella lotta di liberazione della Siria.
Assad è l'unico a frèmere per una offensiva tesa a riconquistare Idlib, che gli darebbe maggiore potere ai tavoli di trattativa e nella fase cosiddetta di transizione, e riporterebbe l'asse Aleppo-Damasco sotto il controllo del regime.
Ma gli interessi che racchiude il governatorato sono troppo importanti per rischiare una guerra senza precedenti. C'è la base russa di Khmeimim e oltre un milione di profughi, all'interno di una popolazione composta da ormai quasi tre milioni di persone, pronti a varcare i confini turchi.
Giordania e Libano, che sperano molto nella riattivazione di passaggi cruciali come quello di Naseeb di recente ceduto dai ribelli, per riattivare rotte importanti per il commercio, verrebbero messi in ginocchio da una escalation.
Per questa ragione la Turchia sta tentando il tutto per tutto per non perdere il controllo dell'ultimo avamposto della de-escalation. Un'opera di mediazione in questo frangente risulterà decisiva.
Le sanzioni americane, anche contro l'Iran, hanno reso più difficile la situazione.
Ma anche se Hayat Tahrir e le altre fazioni che non sono disposte a deporre le armi, venissero in qualche modo neutralizzate, il destino della Siria non sarebbe roseo.
Il dossier terrorismo-profughi rimarrebbe comunque insoluto.




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