domenica 20 agosto 2017

The day after

È anche far sapere ai terroristi che, se non bastano 14 o 87 vittime a fermarci, essi dovranno procurarne ancora di più, ancora più selvaggiamente (e infatti il progetto di strage era ben più sinistro). No, dobbiamo fermarci; dire che quelle vittime sono i nostri figli che amiamo, per i quali dobbiamo portare e porteremo un lungo lutto, di riserbo, di sollecitudine, di vigilanza.
Carlo Ossola il sole 24 ore

L'errore in cui spesso s'incappa, specie dopo una tragedia, è quello di confondere i contorni nei quali essa si è sviluppata.
Se da un punto di vista etico o morale, è auspicabile che vi sia una partecipazione corale tesa a rafforzare l'identità di popolo e ad arricchire l'interiorità di ciascuno, è improbabile che questa faccia molta presa sulla controparte. Soprattutto se si tratta di una formazione dalle connotazioni ideologiche di Isis.
Ad un gruppo terroristico interessa principalmente l'aspetto militare.
Paradossalmente, una sovraesposizione dei nostri sentimenti non farebbe altro che dare l'impressione che l'obiettivo è stato raggiunto. Ed anzi favorirebbe la dialettica del gruppo e le reazioni dovute ad emulazione.
Un salto di qualità, rispetto alle rituali e corali manifestazioni di sdegno per il gesto e di affetto per le vittime, sarebbe costituito piuttosto da una presa di posizione altrettanto ferma e plateale nei confronti delle stragi di civili in medio-oriente. Specie quelle perpetrate dai bombardamenti americani, che sono ormai all'ordine del giorno ma di cui poco si parla sui media. Dimostrare come la civiltà occidentale va oltre le ideologie e le religioni sarebbe uno schiaffo a Daesh. Ed avrebbe anche un impatto positivo sui sentimenti di rancore nutriti da seconde generazioni e convertiti, che sono alla base della marginalizzazione che poi sfocia in radicalizzazione e violenza.

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