martedì 20 settembre 2016

Abu Mohammed manda a quel paese De Mistura e pensa ad uno stato

In realtà Al Jawlani ha iniziato ad accarezzare l’idea di uno stato islamico di Sham sin da quando Al Baghdadi lo spedì in Siria agli albori della guerra civile. E lì inizio a lavorarci organizzando amministrazioni locali, scuole, tribunali. Da siriano conosce perfettamente il modo di vivere e le esigenze del suo popolo. Però fino ad almeno lo scorso anno, all’epoca di un’altra intervista su al Jazeera, ormai divenuto canale più suo di quanto lo fu per Bin Laden, si rendeva conto che c’era ancora da fare molto lavoro militare di conquista del territorio. E a quello si dedicò.

Sheikh al Fateh è un uomo guidato da profondo senso religioso. Segue un’interpretazione rigida, ma non intransigente dell’Islam. E nell'intervista costruita a tavolino mandata in onda alcuni giorni fa, è riuscito a trasmettere quel suo spessore umano che gli consente di essere a capo di un gruppo compatto di combattenti con l’unico obiettivo di costruire una nazione che abbia un suo governo ma che sia anche in grado anche di interloquire con referenti esterni.
Il modo in cui si è presentato, in uno scenario essenziale e su una poltrona in stile classico, vestito a metà tra il civile e il militare, e il duetto con il giornalista che si rivolgeva a lui con molta familiarità chiamandolo Abu Mohammad, hanno dato l’idea di quello che lui può essere per la sua gente e per altri interlocutori. Innanzitutto un siriano, ma anche un esperto di arte militare, politico, fine stratega, e soprattutto un musulmano sunnita.

L’analisi fatta del blocco imposto alla Castello road dalle nazioni unite, con l’unico scopo di umiliare le masse costringendole ad accettare l’elemosina fatta di cibo e medicine, in cambio della rescissione dei legami con i gruppi di ribelli, e per offrire alle truppe di Assad un punto di appoggio, è stata semplice e veritiera. Che le superpotenze usino l’Onu per mascherare le loro guerre, è un fatto ormai assodato. Altrettanto evidenti sono le ragioni per le quali oggi la Siria è nel caos.
Quando i francesi misero alla guida del Paese un gruppetto di alawiti che non rappresentava nessuno ma fungeva da proxy, non avevano calcolato che senza il supporto delle masse non si governa un Paese. E su quelle masse Abu Mohammad può contare, perché come ha ribadito nel suo ragionamento, ormai non sono più Jabhat Fateh o Ahrar al Sham che combattono per un pezzo di terra, ma un intero popolo per la sopravvivenza di una nazione. Compatti contro l’invasore.
Che è poi lo spirito che lo animò quando più di dieci anni fa partì per l’Iraq e si unì ad al Zarqawi.
Se il trucchetto del cessate il fuoco è stato ideato per disintegrare un patto che va oltre il legame religioso e ha radici profonde, allora non sorprende che sia fallito così miseramente.

Il discorso del leader dei ribelli era rivolto al suo popolo, all'opposizione politica e ai gruppi che si sono uniti a lui dopo la separazione da al Qaeda, che a questo punto potremmo ritenere effettiva, e con i quali sta pianificando la nascita di uno stato. Ovviamente fa sempre in modo da mettere al centro dell’attenzione i siriani, ma sa benissimo che le adesioni dei foreign fighters al suo gruppo crescono in maniera esponenziale da mesi ormai. E allora pone l’accento sulla nazione sunnita e unificata in via di creazione. Una specie di invito silenzioso.
Si tratterebbe di un’altra tegola per la coalizione che vedrebbe allargato un fronte di guerra già troppo complesso. Piuttosto che organizzare manovre militari fallimentari assieme ai nemici di sempre, Assad e i russi con i loro alleati in regione, nella speranza di un accordo politico che al momento non ha ragione di esistere, bisognerebbe cercare un modo di relazionarsi al fronte dei ribelli che è una realtà destinata a consolidarsi . Daesh, per come è la situazione attuale, si può sconfiggere nel giro di sei mesi o poco più. Ma il problema vero è il clima globale in Siria che ne nutre le speranze di sopravvivenza.

Nessun commento:

Posta un commento