sabato 11 giugno 2016

Dare un senso al CVE

Nei giorni in cui è stata approvata la legge sulle unioni civili, uno dei soggetti che fu espulso dall’Italia l’anno scorso quando era ormai già rientrato nel proprio Paese di origine, e che ha enorme seguito tra italiani e seconde generazioni attraverso una pagina Facebook dedicata all’Islam e il suo profilo personale, ha pubblicato un messaggio che recitava più o meno così : nel Paese in cui i pensionati non arrivano a fine mese e non c’è lavoro, ci si preoccupa dei matrimoni gay.
Una frasetta che può essere attribuita anche ad un Salvini qualsiasi o a Casapound e agli entusiasti di Eurasia. A quei gruppi cioè, che fanno del nazionalismo e dell’estremismo il loro punto di forza e di orgoglio. Dal fascistello da tastiera alla banda che ha massacrato di botte e torturato Mohammed Habassi in quel di Parma, nessuno di questi è musulmano. Condividono però, un’ideologia fatta di violenza e intolleranza che sfocia nel terrore. Spesso la giustificano come forma di ritorno alle origini e alla tradizione. Persino i rappresentanti delle forze dell’ordine cedono volentieri alle lusinghe di questo tipo di percorso ideologico. E non è sufficiente rilevare che forse nella stragrande maggioranza dei casi, ci si ferma alle parole senza passare all’azione. Una società costruita sulla cultura della violenza è una società destinata a perire.

Uno degli ultimi studi presentati da J.M. Berger, mette in evidenza come tra gli errori e i fallimenti delle strategie messe a punto dai governi per contrastare l’estremismo di ultima generazione, c’è appunto quello di considerare il terrorismo di matrice fondamentalista, un fenomeno a parte. E quindi poi di perdersi in discorsi alquanto inutili circa le tecniche di contro narrazione o di demolizione del messaggio jihadista fuori e dentro internet. Tecniche che si rivelano un boomerang poichè mettono in evidenza tutta l’ipocrisia delle politiche portate avanti dalle società occidentali, e che alla fine si trova al centro della dialettica di Daesh.
Un altro errore commesso è quello di non distinguere tra soggetti radicalizzati (simpatizzanti e fruitori del messaggio lanciato da Daesh sui social) e quelli dediti alla violenza (passati all’azione e ormai inseriti in un contesto criminale vero e proprio). Un programma di contrasto all’estremismo deve porsi il doppio obiettivo di dissuadere dall’aderire a ideologie violente e dal partecipare ad atti di terrorismo.

Berger propone un modello di radicalizzazione-passaggio all’azione valido per qualsiasi tipo di movimento estremista. Questo inizia con la curiosità per il fenomeno e finisce con l’adesione all’ideologia e alle azioni violente. I rappresentanti di Daesh a loro volta si inseriscono nel processo di elaborazione dell’idea di califfato che il soggetto matura. Quindi viziandone il bagaglio di conoscenze e isolandolo poco a poco dal proprio contesto sociale, per spingerlo a costituire micro cellule organizzate. Risulta chiaro come in questo percorso alla fine sia abbastanza inutile proporre discorsi fatiscenti su valori e tradizioni, che oltre ad essere noiosi o poco concreti, vengono sconfessati dalla stretta attualità. Nel nostro caso, è difficile che vengano prese in seria considerazione, le alternative offerte da un governo che combatte contro Daesh e Bashar al Assad assieme agli americani, ma non riesce a dare risposte sul caso Lo Porto e che prima dell’omicidio Regeni era tra i migliori alleati di un dittatore e lo è tuttora . Manca la credibilità.
A questo punto conviene piuttosto contrastare l’azione del gruppo terroristico inserendosi nei passaggi critici del processo di radicalizzazione. E il modo più efficace per bloccare l’adesione alla ideologia e ai modelli proposti da Daesh è proprio quello di dimostrare che anche le loro azioni, forse più di quelle dei nostri governi, sono guidate da ipocrisia latente. L’autofinanziamento attraverso attività criminali, la violenza (anche di natura sessuale) praticata all’interno del califfato a dispetto delle leggi islamiche e delle immagini proposte sui social, l’uccisione ingiustificata di un numero spropositato di musulmani, sono tutte prove delle bugie espresse attraverso la propaganda .
D’altro canto il mezzo migliore per scoraggiare il coinvolgimento nella violenza attiva, è sottolineare come i vertici dell’organizzazione terroristica non siano in grado di elaborare una strategia vincente visto che in Siria ed Iraq stanno perdendo terreno e che con gli attacchi di lupi solitari e micro cellule non riusciranno di certo ad instaurare un califfato in medio-oriente e neppure a conquistare nuove terre. Il caos generalizzato non è funzionale alla costruzione di uno stato. In questo senso l’ultimo discorso di al Adnani, che paventava la possibilità del ritorno alla guerriglia, costituisce un ottimo obiettivo da debunking per dimostrare l’evidente fallimento di Daesh.
A favore di questa strategia, e del fatto che il terrorismo di matrice fondamentalista non è poi così distante da qualsiasi forma di violenza alla quale fanno ricorso gruppi organizzati, risultano interessanti le testimonianze fornite dai reduci del Free Syrian Army, dai militanti di Eta e Farc, e anche dagli estremisti di movimenti di destra. La maggior parte ha abbandonato la lotta armata non tanto perché convinta di aver abbracciato una ideologia sbagliata, ma dopo aver constatato che questa non era di facile realizzazione sia a livello politico che militare.

Un efficace programma di contrasto all’estremismo deve innanzitutto tenere conto del contesto e monitorarlo, ma soprattutto coinvolgere coloro i quali possono bloccare l’azione di reclutamento di Daesh dispiegata in varie fasi e livelli operativi.
Governi e forze dell’ordine, e non solo per compiti tesi alla repressione ma anche per iniziare o migliorare il dialogo, devono unire le forze con famiglie e comunità.
I migliori alleati di Daesh sono solitudine, isolamento e incomprensione.

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