mercoledì 23 marzo 2016

L'immagine della luce

La copiosa documentazione acquisita e le testimonianze raccolte hanno fatto piena luce sulla natura dei rapporti intercorsi tra il Dr. Vittorio Pisani e l'attuale imputato, ed hanno restituito l'immagine di un funzionario di polizia non solo onesto e fedele servitore dello Stato ma anche molto capace e motivato nello svolgimento delle sue delicate funzioni.





Sono state rese note le motivazioni con le quali Salvatore Lo Russo è stato condannato a tre anni e sei mesi di reclusione nonché al risarcimento del danno morale e materiale, per aver sostenuto nel corso di un interrogatorio reso ai magistrati della DDA di Napoli nel Febbraio del 2011, di aver versato, in un arco temporale che andava dal 2005 al 2007, ingenti somme di denaro (160000 euro complessivamente) al capo della squadra mobile di Napoli di cui lui era confidente, in cambio di una serie di favori che lo avrebbero reso immune almeno in parte ai controlli e alle attività di indagine svolti dalla polizia giudiziaria.

Ricordiamo che pur non avendo costituito parte attiva dell’impianto accusatorio alla base del procedimento che lo vedeva imputato nell’inchiesta per riciclaggio, quelle rivelazioni gettavano un’ombra pesante sull’operato di Vittorio Pisani, in quanto ne mettevano in discussione non solo la gestione dei suoi rapporti con il confidente poi pentitosi, ma anche dell’ufficio investigativo che dirigeva. Proprio in relazione a quelle dichiarazioni fu aperto un procedimento a suo carico per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio e anche per corruzione. Il gip Foschini nel Novembre del 2012 archiviò il tutto per mancanza di riscontri sufficienti e significativi ma non omise di sottolineare la non smentità attendibilità del Lo Russo nel suo complesso.
Nella sentenza depositata la settimana scorsa il giudice Sergio Pezza ha invece posto l’accento sul fatto che egli non condivide nemmeno il tono dubitativo del provvedimento di archiviazione e che l’imputato mente sapendo di mentire.
Ci si è interrogati a lungo sul perché di certe affermazioni.
Il tribunale di Benevento ha accolto le istanze esposte nella memoria di parte civile che individuano le ragioni di un attacco così virulento sferrato attraverso accuse infamanti all’ex capo della squadra mobile, nel desiderio di vendetta contro l’investigatore che per anni aveva perseguito il clan e nella necessità da parte del Lo Russo, di dimostrare proprio ai suoi sodali di non essere un traditore ma di essersi adoperato per trovare coperture ed aiuto in ambiti istituzionali importanti.
Va ricordato inoltre che nel corso del dibattimento al tribunale di Napoli, pur non rientrando queste affermazioni nel capitolato di accusa, i pubblici ministeri se ne servirono ampiamente per rinvigorire l’immagine del funzionario corrotto che in virtù del proprio ruolo, faceva da trait d’union tra personaggi ed ambienti che poi finirono protagonisti dell’inchiesta Megaride.
Salvatore Lo Russo nel corso degli interrogatori antecedenti al suo pentimento, svoltisi in un vasto arco temporale nel quale si andavano cristallizzando anche le accuse contro le famiglie Potenza e Iorio, da uomo scaltro e accorto quale è, ha evidentemente individuato ed anticipato quello che poteva essere un suo apporto fattivo alla costruzione dell’impianto accusatorio.
La sentenza mostra come il tribunale sia riuscito ad inquadrare l’intera vicenda nella sua essenza.
E' stato facilitato in questo compito innanzitutto dal fatto di non essere gravato dalla disamina di altre vicende connesse come era accaduto nel precedente procedimento, ma soprattutto dalla totale estraneità ai fatti, se così possiamo definirla.
Alcune questioni incardinate nell'inchiesta Megaride avevano visto come protagonisti gli stessi pubblici ministeri nel ruolo di supervisori e coordinatori di indagini corpose e complesse. E non può non aver giocato un ruolo la densa rete di rapporti professionali ed umani costruiti tra procura e forze dell'ordine specie negli anni bui delle faide di camorra.

Non è sfuggito al giudice Pezza quanto arduo fosse ipotizzare che Pisani si sia potuto rendere colpevole di tali e tante malefatte senza l’aiuto di qualcuno all’interno del suo ufficio o addirittura di qualche copertura nei palazzi delle istituzioni a Roma.
Ma così come nell’altro procedimento, l’enorme mole di documenti presentata dal dirigente calabrese e le testimonianze incrociate di magistrati, poliziotti e funzionari del ministero dell’interno che hanno lavorato fianco a fianco con lui nel corso degli anni, hanno sgomberato il campo da qualsiasi dubbio circa presunte connivenze.
Riguardo al famigerato episodio di Viterbo del 2006, che vide Lo Russo libero di proseguire il suo viaggio verso il casinò nonostante un fermo di polizia ne avesse accertato il possesso di una ingente somma di denaro, la dottoressa Sargenti non ha mai negato di non avere autorizzato il dottor Pisani a fare una richiesta in tal senso al collega Gava, ma ha riconosciuto che la mossa era da inquadrare in una strategia investigativa globale che non ha mai smesso di tenere sotto stretto monitoraggio l’ex boss napoletano. Non c’è mai stato alcun cortocircuito informativo premeditato all’interno dei gruppi investigativi che hanno seguito negli anni le vicende del clan.

E’ una sentenza che in un certo senso rende giustizia anche al procuratore Lepore che giustamente ancora oggi continua a difendere la legittimità delle richieste fatte dal proprio ufficio in merito alle accuse mosse contro il dottor Pisani, ma che nel corso delle indagini non sollevò mai il poliziotto calabrese dalla responsabilità degli accertamenti sugli esposti che lo vedevano sotto accusa. Evidentemente anche lui era profondamente convinto della correttezza dell’operato del capo della mobile e in un certo qual modo dubitava forse dell’interpretazione offerta dai suoi magistrati.
Interpretazione viziata da tanti fattori ma che non può fare dubitare della loro buona fede.
Alla fine sono state fatte sia chiarezza che giustizia.



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