venerdì 4 settembre 2015

Di ciabattini imperfetti e cicloni chiacchieroni

Mentre mi studiavo il caso Calipari mi è venuta un gran nostalgia dell’Oman.
Nei movimenti degli uomini del Sismi c’è la sintesi di quella che è l’Arabia del Golfo.
Un giorno sei in cima al mondo a sorseggiare un caffè e a fumare shisha nella hall di un albergo a cinque stelle. Quello appresso ti ritrovi nella merda più completa in mezzo al deserto interrogandoti sul da farsi.
A volte ci crepi. A volte sopravvivi e riesci a tornare indietro.
In ogni caso rimpiangi sempre di non esserci più. Nonostante tutto. Nonostante l’afa, nonostante i coleotteri, nonostante quel cazzo di indiano che parla inglese a modo suo e spezza la doppia vu pronunciandola a mò di vu doppia. VVeekly vone day. La piazza ovunque e comunque.

Questo è un post di rottura. Chi arriva fino in fondo può scegliere tra una sacher e l’inserimento nella lista potenziali principi azzurri (quella principi azzurri è piena).

Adesso i cicloni tropicali rientrano nella norma in una stagione del Golfo ma tanti anni fa se ne sentiva solo parlare.
La notte tra il 6 e il 7 giugno del 2007 ricevemmo un sms in arabo ed inglese in cui l'ufficio meteorologico e la polizia raccomandavano massima cautela a partire dalle dodici ore successive e soprattutto esortavano a non andare fuori città e a non intasare le strade in mattinata.
Che fu proprio quello che facemmo tutti. Gli omaniti se ne tornarono al villaggio da mammà con moglie e figli al seguito e noi expats ci organizzammo in colonne per raggiungere il lulu o carrefour più vicino. Viaggio inutile ovviamente. Alle 11 del mattino gli scaffali erano praticamente già vuoti e le file alle casse lunghe chilometri.
La gente era sclerata. C’era l’ingegnere esperto di cicloni perché si era girato tutta l’Asia e ti spiegava le manovre da fare per mettere in sicurezza la casa. L'ex- marine che non si capiva che guerre avesse combattuto ma ribadiva la necessità di fare scorte di scatolette. E infatti se l’era fregate tutte lui.
E indiani e pachistani che facevano il pieno di daal e riso.
Il riso è il cibo per tutte le stagioni in medio oriente. Il vantaggio di essere soli è che ti ritrovi il pacco da dieci chili quasi sempre pieno. E così quella mattina non rimaneva che approvvigionarsi di pasta e formaggio. Rigorosamente italiani.
Un occhio della testa perché noi non abbiamo il free trade agreement. Si trovava anche in abbondanza sugli scaffali perché checchè se ne dica la roba italiana non piace a nessuno.
Nemmeno agli americani. Assaggiano le imitazioni che costano meno e di sapore fanno più o meno lo stesso. Checchè ne dicano quei tromboni dei produttori che fanno tanto le vittime ma non abbassano i prezzi.
Ritrovato il solito indiano con taxi abusivo per tornare a casa, lì arrivai e salutai Naleni che con la consueta dolcezza mi aveva preparato biryani per dieci giorni almeno. In condizioni normali l’avrei al solito redarguita ricordandole che ero sola più sola di un girasole e anche troppo paffutella per pasteggiare a riso tutti i giorni. In quel caso la scorta in freezer si rivelò provvidenziale.

Alle quattro del pomeriggio scattava l’ora X ma non successe niente. Il cielo continuava ad essere grigio e si continuava a seguire la tivvù in attesa di rivelazioni eccezionali che non vennero.
Alle quattro del mattino arrivarono le prime gocce. Sembravano i laughing dove che di solito picchiettano sul davanzale all’alba quando è ora di preghiera.
Piovve per tutto il giorno. All’inizio pareva semplice pioggia. Poi quando iniziò ad allagarsi la camera da letto capii la differenza tra la pioggia e un ciclone tropicale.
Quelli del piano terra erano andati via. Le case d’Arabia non sono attrezzate per l’acqua. D’altra parte piove al massimo venti giorni l’anno.
Cominciai a pensare che forse era meglio scappare . Scappo sempre quando c’è un problema.
Ma ormai era troppo tardi. Le strade erano allagate e i wadi straripavano.
L’unica cosa che tenne in quelle ore fu internet. La tecnologia è meravigliosa.
Solo a tratti però. Si ruppe il serbatoio dell’acqua che era in collina.
Acqua che entrava dalla finestra. Acqua che mancava dai rubinetti.
Decisi di dormire in salotto mentre ogni tre ore "insecchiavo" l’acqua dalla camera da letto. Avevo calcolato che bisognava fermarla quando arrivava a metà della stanza per evitare l’allagamento completo. Non rimaneva che dormire sul divano della sala che però era sotto una specie di oblò.
Mi chiesi se non sarebbe stato meglio spostarlo per non morire fulminata. Durante il giorno tutto il palazzo aveva spostato mobili. A quel punto però ero troppo stanca e lasciai perdere.
Se era destino che morissi fulminata non avrei potuto sfuggirlo. Destino non fu.
Continuava a piovere ma più lentamente.
In tivvù apparve il generale al Maamari. L’uomo più temuto dell’Oman.
In quell’occasione il suo sorriso fu una boccata d’aria fresca.
Disse che era tutto a posto. I militari spioni hanno un concetto tutto loro di stabilità.
Mentre guardavo le immagini delle strade distrutte mi veniva da piangere.
Avevo visto crescere quella terra da deserto a giardino nel giro di pochi anni. Adesso era tornato deserto come prima.
Giunse notizia che il sultano aveva fatto un giro di ricognizione ed aveva parlato con i volontari.
La mia amica Dalia aveva avuto una bimba con il cesareo. L’avevano ricoverata appena fu dato l’allarme del ciclone. All’iniziò la chiamammo tutti baby Gonu come il ciclone. Per non dimenticare.
Finalmente andai fuori.
C’era il sole. Le strade erano ancora bagnate. I negozi sepolti dal fango. Erano scappati i coccodrilli dallo zoo. Gli sciacalli rivendevano le taniche di acqua distribuite dall’esercito a cento riali.
Giungevano notizie di cadaveri ritrovati nei garage ma la televisione non lo diceva.
Qui in occidente la chiamiamo censura. Per gli arabi e i musulmani è pudore.
L’Oman nel giro di poche settimane tornò più bello di prima.
O forse così sembrava. La vita spesso è solo questione di prospettiva.

Mi sarebbe piaciuto conoscere Calipari. Però destino non fu anche in questo caso.
Quelli che hanno fama di antipatici sono riusciti a venire a patti con la vita.
A modo loro sono dei sopravvissuti.
Chi sopravvive al dolore comprende anche quello degli altri senza bisogno di fargliene una colpa.

Nessun commento:

Posta un commento