Quando ci trasferimmo nel pescarese era mio padre a prepararmi la colazione.
Mia madre doveva ancora maturare punteggio per ottenere una sede scolastica più vicina a casa.
Io e mio padre eravamo gli introversi della famiglia.
La guerra e la povertà lo avevano segnato.
Il mestiere di farmacista gli ha aperto un mondo fatto di empatia per le sofferenze altrui. Ma anche di rigida disciplina.
Mi è rimasto il cruccio di non averlo mai compreso abbastanza.
Di non avergli dato le possibilità che meritava.
Mi ricordo quando ero ricoverata al Toniolo per un intervento chirurgico mi accompagnò papà perchè mamma non se la sentiva. Per certe cose era lui quello forte tra i due.
Passammo il tempo a parlare della guerra che aveva vissuto. Me la raccontò come mai l'avevo studiata sui libri.
Forse da là è nata la mia passione per lo jihadismo e le trattative per la liberazione degli ostaggi.
Le guerre possono essere anche sbagliate. Sono tuttavia necessarie.
Il problema delle guerre moderne è che non sono risolutive.
La vita è fatta di fasi e di momenti. Sono questi che determinano i nostri atteggiamenti.
Un sorriso non è necessariamente espressione di serenità.
Detto da una che giornalmente ne distribuisce al massimo due quando va bene.
Il mondo dell'intelligence è complesso e variegato. Quello dei nostri servizi a volte lo è molto di più perchè è composto di altri mondi.
Per comprenderli non basta amarli.
Bisogna accontentarsi. Di quello che le regole e le circostanze del momento permettono.
A volte si viene lasciati soli perché non si concedono abbastanza possibilità.
Il riferimento è all'intervista rilasciata a il Corriere dalla figlia del dottor Calipari.
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