venerdì 29 settembre 2017

La jihad al servizio della rivoluzione

If foreign aid is cut, HTS will rally people to its side by arguing the West cannot be trusted, and present itself to Idlib residents as the only option in the fight against the Syrian regime. HTS will also channel its available resources to supporting its key factions only rather than try to deliver services to all Idlib residents. Cutting off foreign aid will therefore cause a significant strain on the daily lives of most of the population of Idlib. Lina Khatib Chatam House

Non avrebbe tutti i torti a suggerire che quello dell'Occidente è un ricatto e come tale non va accettato.

L’errata convinzione in Occidente che Hayat Tahrir non sia null’altro che un cavallo di troia di al Qaeda, e che come tale vada isolato nella sua dimensione politico-sociale e annientato militarmente, non può che creare ulteriore caos e in tal modo essere fucina di terrorismo e di squilibri geopolitici. Questo scenario è purtroppo promosso dalla Russia che, pur non essendo padrona del campo a dispetto delle millantate conquiste militari, pare avere comunque in mano il destino della Siria.
Hayat Tahrir al Sham non è solo un esercito di uomini. E’ un agglomerato di gruppi di diversa estrazione provenienti principalmente dal medio-oriente ma anche da ogni parte del globo. Si tratta di soldati addestrati e con un passato da civili nei settori più svariati, che hanno portato la propria famiglia o se ne sono formati una all’arrivo in Siria. La loro presenza è una realtà che non si può ignorare.

Forte dell’esperienza maturata in Iraq e delle risorse messe a disposizione da al Qaeda, appena sceso in Siria Abu Mohammed al Julani poteva contare sugli uomini migliori che lui ben conosceva e su un comando militare centralizzato compatto ed efficiente. Con molta facilità riuscì ad annullare le velleità dei gruppi di ribelli che non volevano appiattirsi al suo dominio. Altrettanto utile a legittimare il suo comando, fu la commissione shariatica. Autorevole abbastanza da conquistarsi la fiducia degli alleati e mettere assieme alcune tra le più imponenti operation room sul territorio. Sheikh al Fateh capì subito che per vivere, più che per sopravvivere, doveva avere l’appoggio della popolazione. E, infatti, mise al servizio dei siriani un’amministrazione del territorio che diventò un modello. Nusra offriva le prestazioni che la gente non riusciva ad avere in maniera legittima dal proprio governo. Ospedali, scuole, beni di primo consumo. Così furono tollerati i modi non proprio gentili di alcuni dei suoi uomini e i metodi poco ortodossi ai quali inizialmente ricorrevano per realizzare profitti da investire in armi e dispositivi tecnologici. Rapimenti e saccheggi erano all’ordine del giorno. Per i siriani Abu Mohammed era comunque non solo un guerriero inviato dalla provvidenza ma la vera alternativa ad Assad. A una vittoria militare di Nusra non avrebbe potuto fare seguito che un buon governo.
Al Fateh cominciò ad accarezzare sogni di espansione. Verificata la disponibilità di molti gruppi a seguirlo, ma a patto che tagliasse ogni legame con il terrorismo che lo esponeva ai bombardamenti occidentali e gli precludeva l’appoggio di segmenti importanti della popolazione, si decise a dare l’addio ad al Qaeda e al suo mentore. Sheikh al Zawahiri compagno di tante battaglie che lo aveva anche difeso nella diatriba con al Baghdadi.
Il passo concomitante fu la creazione di un gruppo al quale molti aderirono. Quelli che non lo fecero, dovettero subire il contraccolpo militare. L’iniziativa fallì proprio per il fatto che, pur essendo all’inizio di natura meramente formale, con il distacco da al Qaeda era venuta a mancare la base ideologica che faceva da collante a così tanti uomini e ad altrettante esperienze diverse tra loro. Al Julani non si perse d'animo e partì con un’altra iniziativa che aveva come base proprio l’ideologia. Avvicinò Abu Jaber Sheikh e altri, che all’interno del rivale Ahrar al Sham erano i più prossimi alle radici salafite di Nusra, e assieme formarono Hayat Tahrir al Sham.

Sin dal primo discorso pubblico del comandante generale si avvertì la svolta. Abu Jaber non parlava solo di lotta contro l’oppressore in nome di Allah, ma di rivoluzione partita dalle moschee. Di jihad del popolo. Discorsi questi che rassicurarono in parte la gente, senza però convincere più di tanto i suoi soldati .
La mentalità con la quale molti veterani del gruppo, ma anche le nuove reclute operano, è quella della prima ora. Della tenuta del territorio. Percepiscono la popolazione locale come un oggetto da amministrare e non un soggetto con il quale collaborare. Non riescono ad entrare nell'ordine di idee che la lotta sul sentiero di Allah per liberare la Siria dalla dittatura ha esattamente lo stesso obiettivo della rivoluzione. Pur poggiando su basi religiose ed ideologiche diverse, l'amalgama tra i vari protagonisti è uno sbocco naturale e non va contro gli insegnamenti religiosi. Sotto questo aspetto l'atteggiamento dispotico e il monopolio che invece tendono ad avere sulle attività amministrative non li aiuta in un momento in cui la prospettiva è una forte azione militare da parte di Russia e Turchia. Attualmente il semplice accumulo di armi sulle montagne di Idlib non li aiuterà a vincere il confronto e neppure a convincere gli interlocutori stranieri che il loro progetto è un'alternativa migliore rispetto al piano di De Mistura. E' necessario un intervento deciso da parte di al Julani che con il suo carisma sa come convincere i suoi, e l'utilizzo di imam che sappiano comunicare questa esigenza.
Il blocco dei rifornimenti da parte dei governi occidentali non aiuterà molto la popolazione.
Bisogna piuttosto stimolare la fusione tra il jihadismo con il quale si può dialogare e la popolazione locale. E' anche negli interessi occidentali proporre un'alternativa ai piani russi.

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