sabato 16 luglio 2016

Tanti indizi, nessuna prova

Le 28 pagine rese pubbliche ieri a testimonianza del lavoro svolto dalla commissione di inchiesta sull’undici settembre, e che avrebbero dovuto gettare luce sulle reali responsabilità che il governo saudita o i suoi rappresentanti avrebbero avuto, non solo nella messa a punta dell’attentato alle torri gemelle ma più in generale, sull’architettura terroristica di stampo qaedista che ha varcato i confini del regno in quegli anni, in realtà conferma quella che da sempre è stata la sensazione sull’operato e l’atteggiamento dell’establishment saudita all’estero. Attitudini riscontrabili anche nelle informative prodotte dai nostri servizi segreti a partire dalla metà degli anni ottanta, circa i contatti con la comunità islamica locale e i movimenti di denaro tesi al finanziamento di attività religiose e non.

L’Arabia Saudita, così come altri governi della regione, ha sempre cercato di mantenere una sfera di influenza all’interno delle comunità islamiche dei Paesi in cui ha una forte rappresentanza diplomatica e nei quali sono ben inseriti giovani sauditi figli di immigrati o presenti per motivi di studio e di lavoro. Sfera di influenza creata soprattutto anche grazie alla promozione di quell’Islam radicale che poi diventa fucina di tensioni che il governo saudita sfrutta a suo favore sia all’estero che sul proprio territorio. E’ in questo contesto che devono essere valutati i passaggi di denaro tra l’Ambasciatore saudita negli Stati Uniti dell’epoca e sua moglie, e alcuni degli attentatori. Non è possibile stabilire un nesso certo di stampo terroristico per questi trasferimenti di danaro, a tratti anche sostanziosi, proprio in virtù del fatto che furono mediati da due soggetti caratterizzati ancora oggi come presunti, ma non certi, appartenenti ai servizi segreti sauditi. La galassia della sicurezza dei regimi arabi è costituita da questo tipo di personaggi che riescono ad assicurarsi appoggio ed aiuti nelle alte sfere istituzionali grazie alla rete di contatti costruiti nel tempo e alle azioni che riescono a mettere in piedi in zone grigie con le quali i reali non vogliono sporcarsi le mani. E’ arduo alla fine sostenere che sua altezza Bandar bin Sultan, di recente riapparso in pubblico dopo una lunga assenza, e sua moglie fossero consapevoli dell’uso che sarebbe stato fatto di quei finanziamenti. Sarebbe più corretto ipotizzare che si sia trattato di uno dei tanti pasticci andati a male dei quali l’ormai ex capo dei servizi segreti sauditi si è reso artefice.

Sua altezza Bandar, nato da una madre di colore e non di nobili origini, ha sempre vissuto il proprio ruolo di outsider cercando di accreditarsi presso quella che dovrebbe essere la sua famiglia, ma che in realtà è una tribù costituita da più di cinquemila elementi e che ha sfruttato i suoi servigi all’occorrenza.
Allo stesso modo anni dopo si è reso responsabile, assieme agli americani, della nascita di Daesh mentre cercava di costruire una opposizione pseudo-militare al regime degli Assad. Richiamato in servizio per porre rimedio all’errore, non è riuscito ad andare oltre. Il pantano siriano odierno è il risultato dei tanti tentativi andati a male, di organizzare una mini-guerriglia in grado di neutralizzare il dittatore siriano. Se c’è una lezione da imparare da questo documento, di sicuro è quella di essere noi occidentali, interlocutori migliori per i governi arabi in modo da stimolarne la crescita culturale e politica.

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