Nel Febbraio del 2003 il procuratore generale John Ashcroft in visita ad Oslo a margine di alcune considerazioni circa il pericolo del fondamentalismo in Iraq, dichiarò che qualora si fosse presentata la necessità di richiedere l’estradizione di soggetti di interesse allora gli Stati Uniti avrebbero preso in considerazione l’ipotesi di estromettere la pena di morte dalle soluzioni giudiziarie che li avrebbero riguardati. In privato spiegò al collega norvegese quanto l’America fosse preoccupata dall’escalation di violenza in Iraq e come la figura del mullah Krekar fosse centrale ai loro interessi.
Una delle ragioni per le quali Najmuddin Faraj Ahmad non è stato mai estradato in tanti anni che lo videro al centro di inchieste che lo riguardavano, è che le richieste provenivano da Paesi come gli Stati Uniti dove vige la pena di morte o la Giordania che sottopone sistematicamente a tortura gli indagati. Non è stata solo la Norvegia ad opporsi a tante richieste ma anche l’Olanda che lo ebbe ospite per alcuni mesi al rientro da un suo viaggio in Iran, Paese che gli negò l’accesso ma informò i servizi segreti del nord Europa del suo ritorno. I giornali norvegesi all’epoca scrissero che addirittura il procuratore di Amman si era inventato di sana pianta un’accusa di traffico di stupefacenti per aggirare l’ostacolo servendosi di una normativa delle nazioni unite che avrebbe dovuto fornire una soluzione definitiva. Ma le accuse decaddero.
L’interesse degli americani era talmente vivo e pressante che assieme ai servizi giordani una volta catturato Ahmad al Ryati, uomo molto vicino ad Abu Musab al Zarqawi, lo torturarono per avere dettagli non solo sui suoi legami con Ansar al Islam gruppo fondato da Krekar per difendere la causa curda, ma soprattutto per fargli confessare il ruolo di mediatore che costui avrebbe avuto tra al Qaeda e Saddam Hussein per la compravendita di armi chimiche. Al Ryati al processo che lo vide incriminato per terrorismo in seguito ad attacchi contro rappresentanze giordane, americane ed israeliane in un primo momento denunciò le violenze subite per poi alla fine ritirare le accuse. Questa sua repentina inversione di marcia gli fece guadagnare un consistente sconto di pena. I compagni di cella confermarono comunque di averlo visto spesso sanguinante.
A dispetto della vita in apparenza tranquilla che Krekar portava avanti in Norvegia come rifugiato sin dal 1991 e che gli valse spesso l’appoggio della stampa locale nel corso delle sue disavventure giudiziarie, ci troviamo di fronte ad un uomo che negli anni si è spostato parecchio e ha stretto legami pericolosi senza disdegnare l’azione. Ha organizzato attentati, comprava armi dall’Iran e le rivendeva. Ha combattuto in Afghanistan ed ha ammesso di aver conosciuto Bin Laden in quel di Peshawar nel 1988 salvo poi respingere le accuse di partecipazione ad attività terroristica.
L’America lo riteneva talmente pericoloso da inviare i propri investigatori a supporto ogni volta che c’era una indagine in corso in Norvegia.
Il fulcro della questione era quel ponte tra Saddam e al Qaeda. Il casus belli che gli americani cercavano. Erano talmente determinati a prenderlo da inserirlo negli obiettivi delle rendition. Che era un po’ anche il segreto di pulcinella ad Oslo tant’è che un poliziotto avvertì Krekar di guardarsi le spalle.
Si tratta sicuramente di un personaggio pericoloso ma non carismatico tantomeno abile nel creare reti così come faceva al Zarqawi che incontrò nel 2002. Ansar al Islam poteva contare all'epoca al massimo su un migliaio di combattenti. Forniva armi e campi di addestramento ad altri gruppi e ad un certo punto dopo aver creato praticamente la versione curda dei Talebani Krekar fu cacciato.
I giudici norvegesi non hanno mai trovato prove schiaccianti contro di lui quindi non hanno fatto fatica a respingere le domande di estradizione. Questo spiega perchè la stampa locale a oggi insiste nel trovare fragile l'impianto accusatorio dell'operazione JWeb.
Ciò ha posto il governo norvegese, di un Paese Nato quindi, in estrema difficoltà nello scacchiere internazionale.
Krekar è un pesce importante nella misura in cui può portare gli investigatori verso i mondi che sono a lui collegati.
Il procuratore Roberti ai media norvegesi si è dichiarato fiducioso sul fatto che nel giro di sei mesi, cioè il periodo in cui verranno esauriti i procedimenti giudiziari attraverso i quali la difesa giocherà tutte le sue carte, l’Italia otterrà l’estradizione. E il momento attuale sembrerebbe dargli ragione. Le intenzioni di politici e giudici potrebbero finalmente convergere visto il pericolo Daesh che in nord Europa è particolarmente sentito.
Viene da chiedersi : Krekar è tanto necessario all’Italia o verrà in qualche modo girato a qualche altro protagonista della war on terror ? E chi, e per sapere cosa, gli farà visita in carcere al di là degli inquirenti italiani ?
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