«Hanno domandato di chi era la bicicletta - ricorda Cheikh -, se fosse stata rubata a qualcuno. Credo che se fossi stato un ragazzo bianco, mi avrebbero chiesto i documenti, magari lo scontrino della bici. Hanno tutto il diritto di controllare, è il loro lavoro. Ma di fronte a tutti mi hanno trattato come se avessi ammazzato qualcuno. Io li pregavo di telefonare ad Anna, la signora da cui abito. Al Gtt ci guardavano, nessuno ha detto niente. Allora mi hanno lasciato andare». lastampa
Se sotto il profilo socio-culturale un indicatore di benessere, richiamato dall'immagine dell'immigrato in sella ad una bicicletta costosa, non può che fare piacere poichè è segno di integrazione e di benessere dell'intera società, in ottica investigativa l'allerta deve comunque rimanere alta. Un controllo in un caso del genere è d'obbligo.
Quello che spiazza di questa, e tante altre storie che emergono giornalmente dai resoconti di cronaca e sono confermate in forma anonima ai media dagli esponenti delle forze dell'ordine, è il fatto che rimanga fortemente radicata nella cultura della polizia giudiziaria italiana, l'idea che la tortura in senso lato sia l'unica risorsa alla quale attingere per fare fronte a questo tipo di situazioni. Ormai vi è ampia letteratura contro questo tipo di metodi.
Ricatti, torture, intimidazioni. Sono tutte metodiche sorpassate e poco fruttuose.
Si possono ottenere evidenze e spunti con altro tipo di approccio e tecniche d'interrogatorio.
Le scuole delle forze di polizia dovrebbero aggiornare i propri programmi.
Tornerebbe utile anche per un avanzamento culturale generale degli operatori.
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