martedì 16 dicembre 2014

Lupi che non erano

Ancora una volta i comparti di intelligence, questa volta quello australiano, sono sotto accusa per non aver previsto il cosiddetto Sidney siege ovvero un presunto attacco terroristico caratterizzato dalla cattura di ostaggi in un luogo pubblico e condotto da un attore solitario.

In realtà i resoconti della giornata di ieri fanno propendere molto poco per una versione univoca di attacco terroristico ancor meno per la figura del lupo solitario.
E poco c’è anche della scena classica di hostage taking tipica delle atmosfere americane.
Man Haron Monis ha portato con se la bandiera sbagliata, quella con la professione di fede, e ad un certo punto ha preteso che gli portassero il vessillo dell’Isis.
Ha chiesto alle televisioni australiane di poter parlare in diretta e soprattutto ha espresso la volontà di interloquire con il primo ministro Abbott.
Quando il tutto gli è stato negato ha costretto gli ostaggi ad inviare messaggi attraverso youtube e i social media.
Decisamente il suo profilo coincide poco con quello del lupo solitario che pianifica un’azione spettacolare e nemmeno è in linea con quello del terrorista che solitamente assieme ad altri organizza un piano criminale in grado di destabilizzare la comunità verso la quale l’attacco è diretto.
Se un terrorista prende anche in ostaggio delle persone, le usa per delle richieste concrete e ben precise allo scopo di illustrare l’ideologia che il o i terroristi vogliono incarnare e non per dare voce ai prigionieri.
A questo punto bisogna fare un passo indietro e ricostruire per quanto possibile la vita di quest’uomo.

Monis arriva in Australia nel 1996.
E’ cresciuto quindi nell’Iran degli Ayatollah a cavallo della guerra con l’Iraq e delle sanzioni americane.
Un musulmano sciita che arriva in una terra costruita sull’immigrazione ma poco ospitale nei confronti di certe minoranze sicuramente non si sente a suo agio.
Matura un profondo odio nei confronti dell’occidente.
Inizia a scrivere lettere ai rappresentanti del governo australiano ma anche a quelli medio-orientali per tradizione alleati dell’America.
Scrive lettere alle famiglie dei soldati australiani morti in Afghanistan.
Esprime il suo disprezzo definendoli maiali.
Per questo viene condannato a trecento ore da svolgere presso i servizi sociali.
Sua moglie è ritenuta complice della scrittura di quelle missive.
Così come è stata accusata assieme a lui di aver ucciso con numerose coltellate una ex moglie di Monis.
Sull’iraniano pendeva anche l’accusa di violenze sessuali compiute su sei donne.
Il premier australiano si è chiesto come mai quest’uomo non fosse almeno su una lista di persone attenzionate.

Difficile rispondere senza conoscere norme e protocolli che regolano l’approccio a questa tipologia di soggetti in Australia.
Va riconosciuto però che il profilo criminale di Monis ne racchiude diversi : il malato mentale, il fanatico, l’immigrato che cova odio verso l’occidente, il maniaco sessuale.
La sua adesione alle interpretazioni sunnite dell’Isil maturata di recente, ha costituito la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Nel profilo costruito dalla sicurezza interna ha probabilmente prevalso il lato del pazzo, quello che può agire da un momento all’altro ma è difficile stabilire come e quando.
In un’Australia profondamente razzista nella quale i musulmani sono costretti a vivere come in un ghetto, si tratta presumibilmente di un errore di valutazione che ci sta tutto.
La componente religiosa è stata una "semplice" scintilla.
Questa vicenda più che far alzare il livello di guardia contro il terrorismo (l’Isis l’ha immediatamente sfruttata rivendicandola a suo favore) deve indurre i governi ad una riflessione sulle politiche di accoglienza e di integrazione delle minoranze.
La costruzione di mostri inevitabilmente fa si che questi alla fine entrino in azione.

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